Diamante Orsini
Background:
Sin da piccola sono stata additata come un essere (sì, un essere, non una donna) diversa. I ragazzi mi chiamano Neve, i servi mi chiamano Fantasma.
Sono nata con una malattia rara, colpisce una persona su trentacinquemila e ne sono felice. Le donne qui si sposano presto, si rovinano, hanno dei figli e mariti a cui piace divertirsi con le amanti. Non avrò mai una vita come la loro. Per questo ringrazio la malattia: non mi sposerò mai, non avrò mai figli.
Rimarrò coi miei sogni, i miei fiori, le miei poesie e i miei libri. E’ bello stare sole, ma solo di notte, quando non riesco a dormire e i fiori mi parlano mentre il vento canta per me.
Mia madre mi guarda con pena e compassione, ma stoltamente non ha ancora capito che la sfortunata è lei e non io.
Sono nata albina, e ne sono orgogliosa, e allo stesso tempo mi vergogno del nome che porto: Diamante Orsini... un nome importante...
***
<< Neve! Neve!>> Luca mi stava chiamando come ogni pomeriggio, voleva giocare. Lo presi in braccio, era abbastanza leggero, eppure per me non lo era.
Come sono debole, pensai tra me e me, e nel mentre poggiavo il bambino che continuava ad insistere.
<< Non ora Luca, sono stanca, il sole mi indebolisce, ed oggi fa molto caldo. Chiedi a dama Teresa.>>
Mi guardò torvo, ma gli bastò un mio sorriso per fargli tornare l’allegria. Corse da dama Teresa sgambettando allegro.
Non feci in tempo a lasciare il piccolo parchetto, situato dietro casa mia, vicino al mio piccolo giardino personale, che Lucia, la mia serva, venne a riferirmi che ero stata convocata da mio padre, urgentemente.
<< Ma che sorpresa...>> sibilai tra i denti.
<< Non vuole che lo facciate attendere, mia signora...>> disse.
<< Andrò subito. Almeno non aggiungerà anche questo alla lista delle mie mancanze.>> La congedai e mi avvia verso il ricco palazzo degli Orsini.
La mia invidiabile famiglia. Almeno, questo è quello che pensano gli altri.
Aprirono la porta davanti a me, e trovai mio padre, col suo volto sempre serio e furioso nei miei confronti. Non era colpa mia se ero albina, se facevo paura solo con lo sguardo. Ma lui non la pensava così, anzi, pensava fossi la causa di tutti i suoi problemi. E finalmente aveva trovato il modo per estirpare il suo cancro più pericoloso: Me.
<< Diamante!>> tuonò. Non l’avevo mai sentito pronunciare il mio nome con tono paterno. Per lui ero una persona qualunque.
<< Si padre mio, vi ascolto.>> dissi con tono controllato.
<< Domani partirai per Venezia. Lì sarai al sicu...>>
<< ... lontano da voi, come avete sempre voluto. Se è questo che...>> non finii la frase
<< Non ti ho dato il permesso di parlare. E non ho ancora finito. Andrai da un nostro parente a Venezia. Si prenderanno cura di te. Qui non ci fai niente, Diamante. E con questo ho finito. Non voglio obbiezioni. Sei congedata, puoi andare.>> e così non mi lasciò modo di replicare.
Tornai nella mia stanza e notai il baule con tutta la mia roba già ordinata e prnta per la partenza. Mio padre aveva pensato proprio a tutto. Credo di non aver odiato mai così tanto qualcuno come in quel momento. Mi privò della mia casa, dei miei fiori. Degli alberi che cantavano e mi davano consigli. Per andare in un luogo circondato da acqua e con la puzza del canale. Venezia non mi sarebbe mai piaciuta.
Quella notte dormii poco.
I sogni continuarono a tormentarmi.
Decisi di alzarmi.
Uscii fuori dal palazzo senza farmi sentire. L’eco dei miei passi non si sarebbe mai sentito, neanche sopra un manto di foglie secche in Autunno inoltrato.
Mi diressi al giardino che tanto amavo e a cui avrei dovuto dire addio la stessa notte.
<< Oh, miei fiori, unici amici, come farò senza la vostra presenza? Voi che siete così quieti e saggi...>> sospirai e sdraiandomi sentii la morbidezza dell’erba che mi coccolava.
Chiusi gli occhi e mi addormentai.
Sognai ancora una volta l’uomo anziano che invadeva i miei sogni da qualche tempo. E come sempre mi prese per mano per condurmi in un labirinto fatto di mille porte e corridoi...
Mi risvegliai qualche ora dopo. Tornai in camera e decidi di aspettare Lucia sveglia.
Arrivò prima del solito.
Ordini di mio padre, pensai.
<< Mia signora siete... siete già sveglia e pronta!>> disse sorpresa.
<< Sì, Lucia. Non voglio far aspettare oltre la felicità di mio padre, la carrozza è pronta?>>
<< Ecco... sì, ma... non volete salutare vostra madre?>>
<< No! Non ha potuto impedire la mia partenza e questo è solo un modo per farmi capire che era d’accordo! Non sentirà la mia mancanza.>>
Ordinai di prendere i bauli e tutta la mia roba. Scesi le scale e senza guardarmi indietro salii nella carrozza. Guardai la mai serva e le sussurrai prima di dirle addio: << Saluta Luca da parte mia. >> le misi un piccolo fiore tra le mani e aggiunsi: << Gli lascio il mio giardino, so che se ne prenderà cura come se fossi io a farlo...>>
Le sorrisi e feci chiudere la portiera della carrozza.
Durante il viaggio guardai la mia città. Era passata da mezz’ora l’alba e Roma era bellissima... guardai il Colosseo farsi sempre più piccolo mentre la carrozza si allontanava dalla città che amavo. Per portarmi lontano, al nord, nella città delle gondole...